Unioni civili: il doppio cognome non è ammesso?
di Marco Gattuso*
1.La decisione
Pubblichiamo l’ordinanza del Tribunale di Lecco, prima sezione civile, del 2 aprile 2017, con la quale il giudice, confermando il decreto emesso il 9 marzo inaudita altera parte, ha inibito al Sindaco del Comune di Lecco di annullare l’annotazione anagrafica del cognome comune scelto da due donne unite civilmente, trasmesso peraltro anche alla bambina nata dopo la celebrazione dell’unione.
Soltanto poche settimane fa, al momento della presentazione dei decreti attuativi della legge n. 76 del 2016 (Legge Cirinnà), sul portale Articolo29 era stato evidenziato il brutto pasticcio sulla questione del cognome dell’unione civile fra persone dello stesso sesso. Avevamo rilevato la verosimile illegittimità costituzionale della norma contenuta nel decreto attuativo n. 5 del 19 gennaio 2017 (articolo 3, comma 1, lettera c), n. 2), in quanto il Governo delegato a dare attuazione alla Legge Cirinnà aveva, a nostro avviso, sostanzialmente derogato ad un principio espresso dalla stessa legge, senza tuttavia averne il potere: dunque un eccesso di delega. Avevamo anche detto che la parte più clamorosa del pasticcio era contenuta nella norma (articolo 8: Disposizioni di coordinamento con il decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 23 luglio 2016, n. 144), davvero peculiare, con cui il Governo aveva ordinato ai sindaci di cancellare “entro trenta giorni” il cognome anagrafico delle coppie gay e lesbiche che si erano unite civilmente tra l’entrata in vigore della legge Cirinnà (5 giugno 2016) e l’entrata in vigore del decreto “attuativo” (gennaio 2017). Avevamo ipotizzato che verosimilmente quelle coppie non avrebbero accettato che la propria identità personale potesse essere modificata con un tratto di penna, con un provvedimento amministrativo emesso (peraltro senza contraddittorio) in attuazione di una norma fortemente sospetta d’essere incostituzionale.
Non era dunque difficile prevedere che tale diritto a scegliere e mantenere il cognome comune previsto dal comma 10 dovesse essere assicurato dall’Autorità giudiziaria ordinaria.
Ebbene, il primo tribunale adito con una procedura cautelare d’urgenza ex art. 700 c.p.c, ha dato ragione alla prima di queste coppie. Senza neppure affrontare il tema della illegittimità costituzionale del decreto attuativo, il tribunale di Lecco ha “disapplicato” la norma di cui all’articolo 8 che cancellava i cognomi già scelti (il giudice scrive «art. 4, comma 2» ma alla luce della motivazione si tratta di un evidente refuso), ravvisando una violazione dei principi di diritto europeo che tutelano il diritto al cognome. Dall’ordinanza si trae che il primo Decreto attuativo transitorio (il cd. Decreto ponte del luglio 2016) aveva dato corretta attuazione al principio contenuto nella legge, consolidando un diritto soggettivo delle persone unite civilmente al mantenimento del cognome anagrafico comune, mentre il successivo decreto che avrebbe voluto cancellare tale diritto soggettivo è invece illegittimo in quanto contrasta con il diritto alla identità personale sancito anche da fonti di diritto europeo. Richiamati i principi generali, propri anche del diritto europeo, in materia di protezione del nome e di salvaguardia della identità personale anche dei minori (è menzionato, in particolare, l’art. 24 della Carta dei diritti fondamentali) il Tribunale ha riconosciuto il diritto a mantenere il cognome scelto, assumendo che «l’avvicendamento di norme ha senz’altro prodotto nella fattispecie in esame una lesione della dignità della persona e dell’interesse supremo del minore, che trovano tutela nei sopra richiamati principi fondamentali dell’Unione europea».
2.Il brutto pasticcio
Il provvedimento del tribunale lombardo, come detto, non affronta la questione della legittimità costituzionale del definitivo assetto voluto dal decreto n. 5. del 19 gennaio 2017, ma per il principio della ragione più liquida si limita a rilevare solamente il contrasto della norma transitoria con il diritto eurounitario.
Resta dunque aperta la questione, non affrontata dal giudice lombardo, della verosimile illegittimità costituzionale non solo della disposizione transitoria, oggetto della decisione, ma anche della disposizione per cui « per le parti dell’unione civile le schede (anagrafiche) devono essere intestate al cognome posseduto prima dell’unione civile » (articolo 3, comma 1, lettera c), n. 2).
La legge del 2016 conteneva, infatti, al comma 10 l’innovativa previsione di un cognome comune dell’unione civile, il quale poteva essere scelto liberamente dalle parti, diventando il cognome anagrafico delle stesse. Le due parti potevano scegliere, mediante una dichiarazione congiunta all’ufficiale di stato civile, di avere un unico cognome comune. La parte il cui cognome non era stato scelto poteva decidere, con separata dichiarazione, di mantenere anche il proprio cognome, ma poteva anche decidere di prendere anagraficamente il solo cognome dell’altra parte: dunque non vi erano dubbi sulla rilevanza anagrafica della scelta, come sottolineato dalla dottrina unanime prima del decreto di gennaio.
Con decisione a nostro avviso poco meditata, il decreto legislativo n. 5 del 19 gennaio 2017 ha stabilito, invece, che tale cognome non avrebbe alcuna rilevanza anagrafica. Quindi sarebbe un mero “cognome d’uso”. Quindi un cognome che non può essere indicato nei documenti, che non viene trasmesso ad eventuali figli comuni ecc..
E’ stata depotenziata così, a nostro avviso, una delle disposizioni più interessanti della legge Cirinnà. Una previsione che introduce una forte innovazione nel nostro ordinamento. Non è forse un caso che a pochi mesi dall’introduzione del cognome comune dell’unione civile, liberamente scelto dalle parti, la Corte costituzionale sia intervenuta accogliendo per la prima volta (dopo ben tre rigetti nel passato) un’eccezione di incostituzionalità del cognome matrimoniale (dove, come noto, i coniugi non possono scegliere liberamente quale tra i loro cognomi diverrà il cognome della famiglia, poiché una regola arcaica stabilisce che il solo patronimico del maschio diviene cognome identificativo del nucleo familiare, trasmissibile ali figli).
Le associazioni lgbti, dopo la decisione del tribunale lombardo, denunciano adesso una malcelata intenzione discriminatoria, parlando non a torto di diritti concessi a corrente alterna.
Verosimilmente il legislatore delegato non ha in verità compreso sino in fondo la portata innovativa della norma sul cognome, che come noto importa nel nostro ordinamento un istituto che è proprio del diritto tedesco. Nel 2014 l’allora presidente del Consiglio Matteo Renzi indicò nel modello tedesco del “parternariato di vita” (Lebenspartnerschaft) la via per la formalizzazione delle unioni gay e lesbiche. Per conseguenza tutta la legge Cirinnà è fortemente ispirata al modello tedesco: dalla decisione di affiancare l’unione civile al matrimonio (anziché estendere quest’ultimo alle coppie dello stesso sesso), alla disciplina del cognome, dall’esclusione della separazione, sino all’esclusione dell’obbligo di fedeltà (su tali temi e sull’impianto complessivo della legge mi permetto di rimandare al Commentario alla legge n.76/2016 “Unione civile e Convivenza” in uscita nelle prossime settimane per Giuffrè, autori il sottoscritto, il prof. Matteo Winkler e il collega Giuseppe Buffone).
La scelta del Governo di depotenziare la norma sul cognome è dovuta forse meno a motivazioni politiche che a una non piena sintonia tecnico-giuridica con un istituto inedito per il nostro ordinamento e per la nostra tradizione giuridica.
Resta comunque il punto che mai si era vista la cancellazione per decreto del sindaco di cognomi anagrafici riconosciuti in forza di una legge, un trattamento graziosamente riservato solo alle coppie gay e lesbiche.
3.Una possibile soluzione
Com’era prevedibile (e come in effetti avevamo ipotizzato su questo portale) i nostri tribunali hanno iniziato a correggere un’evidente ingiustizia.
La decisione del tribunale ha salvato l’identità personale delle due ricorrenti e della loro figliola, ma una decisione di tribunale, com’è ovvio, risolve il caso singolo ma non può avere effetti erga omnes (per cui verosimilmente dovremo attendere una sentenza della Corte costituzionale).
Non è da escludere, peraltro, che altri ricorsi siano già pendenti (posto che oltre mille coppie si sono unite civilmente fra giugno e gennaio e non sappiamo quante avevano scelto il cognome comune) ed è pure verosimile che altre coppie nei prossimi mesi vorranno usufruire del diritto loro assicurato dal comma 10 della legge Cirinnà: diritto di scegliere un cognome comune che abbia effettiva valenza anagrafica.
C’è una soluzione a questo pasticcio? La legge Cirinnà prevede al comma 31 che il Governo possa emanare nei due anni successivi alla sua entrata in vigore decreti contenenti «disposizioni correttive» dei decreti già emanati. Dunque la legge prevede un meccanismo destinato a risolvere eventuali problemi che dovessero emergere nel corso dell’applicazione dei decreti attuativi, eventualmente correggendoli. Basterebbe allora prendere atto del verdetto del tribunale di Lecco e cancellare con un tratto (non i cognomi dei cittadini ma..) l’articolo 3, comma 1, lettera c), n. 2 e l’articolo 8 del decreto di gennaio.
Sarebbe bello che per una volta la politica, oltre ad annunci in stile elettorale su future disponibilità sui diritti lgbti, desse invece da subito una soluzione coerente, senza rimandare centinaia di coppie, come al solito, al faticoso e costosissimo lavoro di supplenza delle corti.
Un semplice decreto di poche righe può raggiungere questo risultato. L’iniziativa spetta al Ministro della giustizia.
* giudice presso il tribunale di Bologna
Link articolo originale Articolo29